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A proposito delle diverse egemonie: il mondo digitale e l’auto trasformazione del capitalismo

di Vanni Sgaravatti

Nella prima modernità esplose il fenomeno dell’individualizzazione, che non è l’individualismo neoliberista e neppure il processo psicologico di individuazione. La prima modernità soppresse la crescita e l’espressione del sé per favorire la collettività, mentre, per la seconda modernità, abbiamo solo il sé (da Shosanna Zuboff nel suo libro: “il capitalismo di sorveglianza”).

Agli albori della psicanalisi il paziente soffriva per le inibizioni che gli impedivano di diventare cosa e chi riteneva di essere, oggi, nella seconda e terza modernità, il paziente soffre soprattutto perché cerca di capire a cosa dovrebbe credere o potrebbe essere o diventare. Come scrivono Ford nella prima modernità, ed Apple nella seconda, hanno compreso che il modello di business doveva andare di pari passo con la promozione di determinate condizioni di vita.

All’origine della sua nascita, l’offerta di Apple, in cui i prodotti che scaricavano la musica on line diventava una forma di liberazione dai vincoli del mercato, permettendo ad ognuno di avere la propria play list personale, senza piratare alcunché. Un po’ come l’operazione che fece Ford con il modello T nella prima modernizzazione. Si dice che poi quell’innovazione fu ingoiata dal perfido capitalismo. Certo c’erano stati 30 anni di liberismo che avevano introdotto valori, come competizione cruenta, l’importante era il risultato. Ma ci furono cattivi in carne ed ossa, coscienti di trasgressioni etiche?


Facciamo un po’ di storia della nascita delle innovazioni digitali ad alto impatto sociale

I dirigenti Apple scoprirono come poter fare soldi, vendendo pubblicità mirata e poi scoprirono come sfruttare le lacune delle leggi sulla privacy e poi ancora trovarono che i tribunali davano loro ragione in quei contratti on line lunghissimi, in cui occorrevano 75 giorni di lavoro per leggerli. Perché non avrebbero dovuto far soldi? Lucravano forse in un’opera che rendeva giustizia, liberava dalla fame, oppure che avrebbe reso infelici, come fa il mercato delle armi? Non erano cose necessarie, ma superflue. Anche se qualcuno ha detto che non c’è nulla di più necessario del superfluo. Magari avevano la sensazione di entrare in una sfera privata, ma che ci potevano fare se le leggi che regolano la convivenza glielo permettevano? Noi avremmo fatto diversamente?

I Rolling stone hanno venduto un sacco di dischi e non li consideriamo dei truffatori. Come un nuovo tipo di capitalismo emerge senza essere stato pianificato consapevolmente, la logica iniziale dell’iPad era, in fondo quella tradizionale di vendita dei devices, continuamente migliorati attraverso il canale diretto con i clienti. Ma nel caso di Google la transazione, che emergeva senza averla cercata dalla prima offerta di personalizzazione delle ricerche per i loro clienti, avveniva attraverso i clienti e il prodotto era immateriale. I comportamenti dei clienti, in termini di esigenze e bisogni di ricerca, costituivano l’apprendimento automatico degli algoritmi e delle intelligenze artificiali, un settore che dentro Google è protetto dalla sicurezza e dalla segretezza di maggior livello. Perché non usare la tecnologia per migliorare la qualità del proprio prodotto: in questo caso, la ricerca e la predizione di comportamenti?

Niente di male fino a qui, oppure niente di diverso da un sistema di mercato capitalistico tradizionale. E non era nulla di male neppure la segretezza: non proteggereste il vostro know how aziendale?

Ma se in questo campo, a questo prodotto, si utilizzano, al fine di migliorarne la qualità, dati di altri “clienti”, cioè dati sui comportamenti di altri clienti, nasce qualcosa di diverso anche se inizialmente, non appariva così. Immaginate di avere il permesso di un vostro cliente, di poter utilizzare metodi e risultati del lavoro fatto per lui per migliorare la vostra performance per tutti gli altri clienti. Cosa c’era di male e di diverso? Una volta si chiedeva il permesso scritto e finiva lì. Era una truffa? In realtà Google sottopose a tribunali e organi legislativi tali contratti, che furono considerati validi. Il nuovo business si sviluppa sempre nel confine tra lecito e illecito quando puoi giocare su asimmetrie di potere, il cui impatto sociale non è ancora riconosciuto e quindi contenuto dalle norme. Cosa dovevano fare? Il produttore doveva anticipare tutti, immaginare il danno futuro e adattarsi ad un’etica che anticipava qualsiasi regolamentazione? Forse sì, nel mondo che sogniamo.

Dove si è andati a parare lo possiamo già immaginare. Quanti comportamenti sono cambiati avendo a disposizione questi nuovo modo sistema di relazione con le cose e di fatto con gli altri? Sempre Zuboff nel suo libro racconta che fu l’ex ceo di Google Eric Schmid che disse: “furono le analisi delle prime aste pubblicitarie dell’azienda realizzate da Hal Varian a chiarire la vera natura degli affari di Google, in una sorta di “momento eureka”: “d’un tratto ci rendemmo conto di essere nel business delle aste”.

E che Larry Page che alla domanda: “Che cos’è Google”, pare abbia risposto “Se appartenessimo a una categoria sarebbe quella delle informazioni personali: i posti che hai visto, le comunicazioni. I sensori costano pochissimo, l’immagazzinamento è economico, le telecamere sono economiche, le persone genereranno una mole enorme di dati. Qualunque cosa tu abbia visto o sentito vissuto potrà essere cercata tutta la tua vita diventerà ricercabile”. La visione di Page riflette perfettamente la storia del capitalismo segnata dall’appropriazione di cose esterne alla sfera del mercato, fatte poi rinascere come prodotti.


Ma scaviamo un po’ in profondità su questa genesi del digitale sociale …

Il digitale e l’artificiale non sono il male piovuto dal cielo, i meccanismi che hanno facilitato questo tipo di sviluppo del capitalismo della sorveglianza, risiedono anche nella differenza della nostra cognizione, quando ci pensiamo come individui e come collettivi. La storia sulla nascita del capitalismo della sorveglianza digitale è la storia di decisioni individuali dei fondatori delle piattaforme, anche se pure loro recitavano copioni determinati dalle condizioni che regolavano gruppi e nuovi sistemi. Sembrano istinti ed esigenze individuali così diversi dalle nostre: loro sono i cattivi e noi i buoni. Anche se mi viene il dubbio che lo siano perché sono tra quelli che, con il senno di poi, possiamo dire che hanno avuto grande successo.

Per fare un esempio di quella differenza tra individuo e collettivo sociale, prendiamo l’esempio della “privacy”. Molti di noi, in realtà, rispetto a questo, si lamentano della fatica di tutte le pratiche che ci difenderebbero dalle invasioni della nostra privacy e di come tali norme siano più un fardello che non una misura a nostro beneficio. Questo succede perché in realtà il principale aspetto negativo o problematico non ricade direttamente sul singolo. Le piattaforme, nella stragrande maggioranza dei casi non rubano informazioni sui nostri comportamenti per agire verso e contro di noi. In parte l’estrazione dei nostri dati ci viene ricompensata da una personalizzazione dei servizi. Il fatto è che il surplus informativo sui comportamenti è una risorsa a costo zero che alimenta il business. Ma anche qui, potremmo semplicemente pensare: “beati loro, se sono superricchi, magari supertassiamoli”.

Il problema è che questo nuovo sistema di business in cui si trasforma in merce anche l’informazione, incide sulle condizioni di vita dell’individuo. Non direttamente, ma cambiando la società, le regole dei gruppi a cui apparteniamo, senza norme adeguate che da sempre regolano la convivenza civile e che hanno bisogno di tempo per maturare. Ci si ritrova quindi a vivere, senza accorgercene e a posteriori, quello spaesamento senza punti di riferimento che produce anche nostalgie e desideri di conservare valori del secolo precedente. Proprio quelli che tanti lutti hanno provocato e che pensavamo di avere superato.

Le egemonie sono tutte uguali?

In questo contesto, però, faccio fatica a trovarmi sulla stessa lunghezza d’onda di chi si lamenta dell’egemonia della tecnologia opprimente del sistema in cui vive, mettendo tutte le egemonie sullo stesso piano. In realtà, penso che molti di quelli che si lamentano abbiano uno sguardo, assolutamente legittimo e comprensibile, verso il proprio ombelico, il proprio bisogno individuale, nello stesso modo di come i fondatori del nuovo capitalismo hanno fatto, seguendo, cioè, il loro bisogno, di sopravvivere, sviluppandosi. Nel momento in cui non rifletti, non ti impegni, non pensi sul tuo pensato e ti lasci andare al fluire del tuo istinto è così. Come potrebbe essere diverso: è l’ombelico che comanda.

È istintiva, ad esempio, la paura che la guerra minacci il tuo ombelico, con la giustificazione morale alla promozione della pace a tutti i costi e, a volte, a scapito di chi ci rimette la vita per la propria libertà, con il classico: “così fan tutti” (gli americani soprattutto, quando si parla della guerra in Ucraina). E’ istintivo il desiderio di utilizzare le tecnologie digitali che rendono gradevole la nostra comfort zone, assegnando alla filosofia politica il problema dell’egemonia capitalista che ne potrebbe derivare. Ma, mi chiedo, non era l’oppressione di questa egemonia, quella del capitalismo di sorveglianza occidentale americano, che giustificava la scelta di non combattere contro l’altra egemonia: tanto pari sono? Quella, per intendersi, dell’oligarchia, autocrazia? Ma non è che forse al nostro ombelico piace stare in questa egemonia di casa nostra?

 

 

(1 ottobre 2022)

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